E’ con grande orgoglio che vi proponiamo in anteprima uno stralcio dell’intervista, realizzata dalla redazione del settimanale Io Donna, al geniale e provocatorio artista italiano Maurizio Cattelan, autore di numerose e discusse opere che, nonostante tutto, hanno fatto la storia dell’arte contemporanea della scena italiana e internazionale. Un’intervista intensa, che ripercorre le tappe della sua vita fin dai primi, insoddisfacenti ma necessari lavori, al desiderio, o meglio, al bisogno di riscatto.
- Partiamo dalle sue origini. Prima che la sua opera di infaticabile perturbatore la portasse a diventare così celebre, lei ha avuto un percorso esistenziale inconsueto, all’americana. Né aiuti né tradizione di famiglia. Ci riassume le tappe? Papà camionista, mamma donna delle pulizie. A tredici anni vendevo souvenir e santini nella basilica di Sant’Antonio, poi ho lavorato in una lavanderia automatica. A diciassette sono andato a vivere da solo. Per mantenermi facevo l’infermiere. Lavoravo tutto il giorno e la sera frequentavo le serali. Di tutti i lavori che ho fatto, l’infermiere è il mio preferito. Per via del rapporto umano coi malati. Poi ho cercato qualcosa di meno impegnativo, la raccolta dei rifiuti. Finivo alle due del pomeriggio: lì ho assaggiato la libertà. Infine l’obitorio: portare, lavare, vestire i cadaveri. Di tutti i lavori, il più sereno. Non c’era coinvolgimento emotivo coi degenti. Forse mi sono spinto fin lì, all’ultimo stadio, per essere costretto a cambiare. A venticinque anni ce l’ho fatta: ho smesso di lavorare.
- Com’è andata? Non ce la facevo più: la necessità di lavorare, per sostentarmi, si è trasformata un po’ alla volta in autolesionismo. Avevo una lametta in tasca e mi tagliavo le dita, per poter andare al pronto soccorso e avere qualche giorno di malattia. A quel punto partivo per Amsterdam, che era la Bologna del nord. Lì ho scoperto il mondo degli artisti che occupavano fabbriche abbandonate. Poi tornavo a casa e, dopo una settimana, mi tagliavo di nuovo con la lametta. Non poteva durare. Un giorno, il più importante della mia vita, mi sono licenziato. E ho deciso che non avrei mai più lavorato. Ci sono voluti dieci anni per correggere l’educazione sbagliata ricevuta dalla mia famiglia: il lavoro visto come strumento per sopravvivere. Io invece volevo un lavoro che servisse a emanciparmi.
- Da lì le prime opere, il successo in Italia, il trasferimento a New York, nel ’93. Una carriera all’insegna di una meditazione scherzosa ma profonda, sempre accompagnata da una gran quantità di polemiche. Da quelle per i bambini-fantoccio impiccati a una pianta, a Milano, a quelle per Nona ora, con il papa abbattuto da un meteorite, per finire con Love, la mano di cui resta solo un dito medio, installata davanti alla Borsa, sempre a Milano. Produco cose che interagiscono col pubblico e coi media. Non mi piace un lavoro che non produce una risposta. Se è buono, deve essere in grado di farsi amici e anche nemici. Solo quando non si è sicuri si è molto sensibili alle critiche. Però, di solito, se non sono sicuro, non espongo. Prima ci penso tante di quelle volte…
Potrete leggere l’intervista completa nel numero di “Io Donna” in edicola dal 15 ottobre. Un ringraziamento ad Alessandra Versaci ed allo staff di Ambito5.